Alessandro Geraldini
GERALDINI

RAPPORTI DIPLOMATICI FRA ITALIA E SPAGNA: ANTONIO

Lluis Lucero

 RAPPORTI DIPLOMATICI TRA L'ITALIA E LA SPAGNA:

ANTONIO GERALDINI, TESTIMONE DELL'AMBASCIATA

DI JOAN MARGARIT PRESSO SISTO IV ?
Lluís Lucero Comas
Institut de Llengua i Cultura Catalanes
Universitat de Girona

            Mi sembra, innanzitutto, d'obbligo chiedere scusa per gli errori, probabili, che possa commettere parlando italiano, una lingua che non finirò mai di studiare e, dunque, di apprezzare. Vorrei, anche e sopratutto, ringraziare l'organizzazione di questo Convegno Storico Internazionale sulla famiglia Geraldini di Amelia del gentile invito a partecipare. Se ho accettato subito, senza troppo pensarci, è stato per motivi anche sentimentali. Mi spiego: nel lontano aprile del 1988, quand'ero ancora all'università facendo i miei studi di Filologia Catalana, cioè quindici anni fa, partecipai, quasi costretto dalla professoressa Mariàngela Vilallonga - che mi chiede di scusarla per la sua assenza - al mio primo convegno con una comunicazione su Antonio Geraldini intitolata "Sobre uns poemes inèdits d'Antonio Geraldini conservats a l'Arxiu Capitular de la catedral de Girona"[1]. L'anno dopo scrissi una lettera al Comune di Amelia e venni a sapere dell'esistenza del "Comitato Permanente Alessandro Geraldini", che mi fece arrivare diversi materiali, tra i quali qualche articolo della Professoressa Igea Frezza Federici, che ci onora oggi con la sua presenza. Poco dopo incomminciai un breve, purtroppo, ma fruttuoso rapporto epistolare col dottore Ermanno Santori, alla cui memoria dedico la mia modesta relazione. Nel marzo del 1992 partecipai ad un altro convegno con un'altra communicazione di argomento simile: "Sobre un poema d'Antonio Geraldini dedicat a Bernat Margarit"[2]. Però già dal 1990 le mie ricerche erano centrate su un altro personaggio, Joan Margarit i Pau, cugino del precedente Bernat, e nella sua opera magna, i Paralipomenon Hispaniae libri decem, oggetto della mia tesi di dottorato, ancora e purtroppo in fieri[3]. Quest'invito mi ha offerto, dunque, la possibilità di ritornare indietro, fino alla mia passata giovinezza di ricercatore. Verso la fine di settembre del 1994, presentai all'Università di Girona il mio lavoro di ricerca sul secondo libro dei Paralipomenon. Ci misi una citazione iniziale di Antonio Geraldini: Cultura uestris digna laboribus, tratta dal poema di cui oggi vorrei parlarvi. Mi sono permesso dunque, e grazie all'invito dell'organizzazione di questo interessante convegno, di associare nella mia relazione i due personaggi a cui devo il mio ingresso nell'affascinante ma faticoso mondo della ricerca storico-filologica: l'esca, Antonio Geraldini, e l'amo, Joan Margarit. Non è, però, un'associazione gratuita: uno dei personnaggi, a cui va dedicato il poema che ho appena menzionato, è proprio Joan Margarit. Ma forse sarebbe già l'ora di finire l'esordio e cominciare a parlare di quello che ci interessa.

            Il poema che è alla base della mia relazione s'intitola "Ad Iohannem Margaritam Gerundensem Pontificem et Bartholomeum Verinum Balearicum iurisconsultum, Regum Hispaniae oratores pro pace Italiae ad Xystum Quartum Pontificem Maximum" (A Joan Margarit, vescovo di Girona, e Bartomeu de Verí, giureconsulto baleare, ambasciatori dei Re di Spagna in favore della pace in Italia, davanti al Massimo Pontefice Sisto Quarto) e fa parte del secondo dei due libri di Carmina di Antonio Geraldini pubblicato a Roma verso 1486. Tutti e due, di cui si è occupato efficacemente il dottor Martin Früh, qui presente, nella sua tesi di dottorato[4], sono dedicati a Giovanna d'Aragona, figlia dei Re Cattolici. Come possiamo leggere nel Dizionario Biografico degli Italiani: "è una raccolta, in due libri, di odi in metri oraziani e catulliani, composte già a partire dagli anni settanta e dedicate ai sovrani spagnoli, a personaggi eminenti della loro corte e a familiari del Geraldini"[5]. È il poema numero dieci, su un totale di venti, tra i quali quello dedicato a Bernat Margarit cui ho fatto cenno poco fa, ed è composto di sedici strofe di struttura alcaica.

            Prima di parlare un po' del testo, sarebbe oportuno, mi sembra, occuparsi, anche se rapidamente, del contesto, vale a dire presentare i personaggi cui è dedicato il poema e spiegare i fatti storici cui fa riferimento.

            Bartomeu de Verí i Desbac nacque a Ciutat de Mallorca nel 1446 in seno ad un'influente famiglia di giuristi stabilita nella città principale del regno di Mallorca. Nel 1463 fu creato cavaliere dal re Giovanni II di Catalogna e Aragona. Nel 1476 fu nominato reggente della Cancelleria e sei anni dopo inviato in Italia come assistente dell'ambasciatore Joan Margarit i Pau.  Poco dopo divenne anche reggente della Camera della regina di Napoli. Morí verso la fine del quindicesimo secolo. Tra i suoi amici si devono contare il noto umanista catalano Jeroni Pau ed il nostro Antonio Geraldini. Entrambi gli dedicarono un'epistola ed un poema panegirico. Il famoso autore dell'opuscolo Barcino - famoso grazie agli eccellenti lavori della professoressa Mariàngela Vilallonga[6]- gli scrisse l'epistola per accompagnare l'invio dei due volumi di Paolo da Castro, probabilmente i Consilia, che lui gli aveva chiesto. Per quanto riguarda il poema, si tratta di un epigramma composto a partire da altri epigrammi di Marziale: un chiaro esempio, dunque, di contaminatio, come scrive la professoressa Vilallonga[7].

I testi appartenenti ad Antonio Geraldini si trovano nel codice miscellaneo di Pere Miquel Carbonell dell'Archivio Capitolare della cattedrale di Girona[8], in compagnia di altri suoi cinque poemi, un'epistola e due epigrammi del fratello Alessandro. Benché me ne sia già occupato nelle comunicazioni a cui facevo riferimento nelle prime righe di questa relazione,[9] mi sembra opportuno aprire una parentesi non molto lunga per parlarne un po'.

Entrambi i testi di Alessandro Geraldini sono opere di circostanza, di estensione diversa a seconda della serietà del tema, ma sempre con la stessa forma metrica, il distico elegiaco. Il primo è un breve e semplice elogio della grafia di Pere Miquel Carbonell, archivista, grafomane e storico, autore delle Chròniques de Espanya[10]. Questo personaggio, che ebbe un ruolo importante nella consolidazione e diffusione dell'umanesimo catalano, secondo la professoressa Vilallonga[11], amava molto questi elogi, come dimostrano sia la presenza di un altro poema simile del menzionato Jeroni Pau nello stesso foglio del manoscritto, sia il fatto che spesso ne richiedesse esplicitamente agli amici. Se qualcuno ammira i tratti di questa scrittura, deve sapere che appartiene a Carbonell, catalano di Barcelona e archivista reale: così potrebbe riassumersi il suo contenuto. La costruzione condizionale e l'esplicitazione del nome dello scrivano occupano il primo distico, mentre due costruzione appositive, relative a Carbonell - la sua patria e la sua professione - costituiscono il secondo e ultimo. L'altro poema è un epitaffio dedicato a Gràcia, la moglie di Carbonell, morta da poco. Il fatto di scrivere un epitaffio per questo motivo, palesa il grado di amicizia che uní Alessandro Geraldini e l'archivista catalano. Tutto il poema è scritto in prima persona, come se fosse la moglie morta a parlare, rivolgendosi a suo marito. Nel primo distico, ed è un fatto abbastanza originale, afferma che la morte non le ha fatto dimenticare il marito che le è sopravissuto. Nel secondo ci sono un obbligato e scontato riferimento al sepolcro in cui riposa e il non meno scontato riferimento al pianto suscitato dalla scomparsa di un essere amato. Nel terzo, si rivolge al marito e lo esorta a non piangere più e a rassegnarsi. Il quarto e ultimo esprime la constatazione dell'inesorabilità della morte, che prima o poi e senza fare differenze arriva per tutti. Sono due testi, in definitiva, che si muovono nei limiti della più estrema correttezza e che sono documenti attendibili, testimoni dell'amicizia che unì questi due personnaggi, amicizia che mise in rilievo la professoressa Teresa Cirillo Sirri in una preggevole comunicazione nel  VI Congresso dell'Associazione Italiana di Studi Catalani  a Cagliari nell'ottobre del 1995[12].

Per quanto riguarda i testi di Antonio, l'epistola è una lettera ufficiale, redatta per ordine del re Giovanni II e indirizzata al Santo Padre Sisto IV, con lo scopo di ottenere un'indulgenza plenaria per la Confraternità della Vergine della cattedrale di Barcelona. Il tono dei cinque poemi è sempre panegirico. Il primo è dedicato a Ramon Llull. Ha l'apparenza di un epitaffio, ma non è quello che si trova attualmente sulla tomba di questo autore fondamentale nella storia della lingua e la letteratura catalana. In questo poema si illustrano brevemente i fatti più rilevanti della vita del beato: la sua gioventù licenziosa, la sua conversione, l'illuminazione di Randa, la sua ingente produzione scritta e soprattutto il suo lavoro missionario ed il suo supposto martirio per lapidazione. Il secondo è un curioso epitaffio dedicato a un certo Garrulus Albinus, soprannominato Picae. Per quanto si deduce dal testo, non certo privo di grazia, questo tale Albino fu molto amante del bere e forse ebbe a suo carico le cantine reali. Il terzo è dedicato a San Pedro de Arbués, teologo e martire, sgozzato da alcuni ebrei mentre pregava nella cattedrale di Zaragoza nel settembre del 1485. Questo testo, citato da Daniel Rico Camps in due interessanti studi sull'immagine del martire ed il suo sepolcro[13], ci descrive, dopo averne fatto un elevato elogio, la sua morte con qualche scena di forte drammaticità. Il quarto - assai lungo, novantadue versi - è dedicato a Narcís Egidi, notaio barcellonese introdotto nel testo come personaggio. Si tratta, fatte le debite riserve, di un manuale in versi per la buona confessione, che passa in rassegna i peccati capitali e alcuni procedimenti del sacramento della penitenza. Il quinto, che ho già menzionato all'inizio della mia relazione, è dedicato a Bernat Margarit, abate di Sant Pere de Rodes e arcivescovo di Catania, fa un elogio delle sue qualità ed esprime la fiducia che, grazie ad esse, accederà all'arcivescovato. I due ultimi appaiono anche nel secondo libro dei Carmina pubblicati a Roma e già ricordati.

Chiudo la parentesi e torno ai due testi dedicati a Bartomeu de Verí. L'epistola, priva di datazione, è una lettera personale in cui chiede scuse per un prolungato silenzio epistolare dovuto agli impegni e ai viaggi in compagnia di suo zio materno. Il poema[14] è una serie di cinque distici elegiaci, in cui l'autore costruisce il panegirico del suo amico, a partire dal gioco etimologico col cognome del destinatario. Si tratta di un equivoco ingegnoso e risolto in favore di De Verí: Verinum può essere messo in rapporto, paronomasicamente, con uiro e con uero, vale a dire "veleno" e "vero", ma chi pensi la prima cosa, sbaglia: il cognome dell'amico deriva da "verità".

            L'altro personaggio, forse quello principale, che appare nel testo di Antonio Geraldini e che occupa la nostra attenzione, è Joan Margarit i Pau, vescovo di Girona e cardinale, a cui il professore Brian Tate dell'Università di Nottingham dedicò anni fa un'esplendida monografia[15], fondamentale per tutti gli studi posteriori su questo umanista catalano definito da Vespasiano da Bisticci[16] "dottissimo e in jure canonico e civile, ed ha notizia universale di teologia e di filosofia, e degli studi di umanità e di storia; è grandissimo cosmografo e universalmente d'ogni cosa ha notizia". Riassumendo un po', bisogna dire che nacque a Girona verso 1422 in seno a una famiglia nobile e che fu destinato al sacerdocio dalla sua infanzia. Verso la fine degli anni trenta viaggia a Bologna per studiare all'università. Nel 1441 è menzionato come già laureato in diritto canonico e due anni dopo, dottore utriusque iure. Dopo qualche anno in Catalogna, rivestendo diverse cariche, torna in Italia nel 1448. Due anni dopo è ammesso come clerico nella Camera Apostolica. Agisce da ambasciatore del Santo Padre e del re Alfonso nei rapporti con la Francia. È nominato vescovo d'Elna nel 1453 e comincia la sua carriera politica ufficiale nella Catalogna. Nel 1461 il papa Pio II lo nomina nunzio papale per la Corona d'Aragona. Durante la Guerra Civile Catalana, che, essendo il detonante nel conflitto personale e dinastico tra il re e suo figlio Carlo, principe di Viana (si deve ricordare che il padre fece imprigionare il figlio), oppose la Generalitat di Catalogna, partidaria di Carlo, ed il re e che durò dieci anni tra 1462 e 1472, fu partidario del re Giovanni II. Nel 1462 è nominato vescovo di Girona e più tardi consigliere reale fino alla morte dello stesso re, carica che gli viene confermata dal suo successore, il re Ferdinando. Nel 1481 torna in Italia come ambasciatore e due anni dopo ottiene il posto di cardinale grazie a Sisto IV. Muore a Roma il 21 novembre del 1484, "di male di pietra", secondo Vespasiano da Bisticci[17], ed è seppellito a Santa Maria del Popolo. Il Burckardo[18] scrisse: "Dominica, xxi dicti mensis novembris, circa horam xvi, r.mus in Christo p. et d. Joannes tituli Sancte Balbine, presbyter cardinalis gerundensis vulgariter nuncupatus, Rome, in domo sua solite residentie spiritum reddidit creatori. Deinde, circa horam xx, venerunt ad domum ejusdem cardinalis defuncti rr.mi dd. Vicecancellarius, Neapolitanus, Sancti Marci, Rechanantensis, Agriensis, Aragonia, Senensis et de Ursinis. Fuerunt dicte vigilie mortuorum per conventus in aula defuncti et aliis predictis cardinalibus presentibus more solito, et ibidem candele parve distribute: circa horam xxiii, fuit portatus ad ecclesiam beate Marie de Populo et ibidem in capella retro altare imaginis beate Marie virginis depositum, solo cardinale Neapolitano, testamenti sui executore, ipsum ibidem illo sero visitante; et fuit in maxima pluvia illuc portatus".

            Tranne alcuni discorsi nelle corti di Barcellona, tutte le sue opere le scrisse in latino. Le principali sono queste:

-         De origine regum Hispaniae et Gotorum: l'unico manoscritto è custodito nella Biblioteca Ambrosiana di Milano; è un'opera molto breve in cui si spiega l'epoca delle invasioni visigotiche e che mette in rapporto i loro re con quelli di Castiglia e di Catalogna-Aragona; fu scritta tra 1458 e 1460.

-         Templum Domini: l'unico manoscritto si trova nella biblioteca della cattedrale di Barcellona; è un trattato scritto nei primi anni della Guerra Civile Catalana (1462-1472) con l'intenzione di dimostrare che si devono rispettare i luoghi di culto e che, essendo il potere dei re un dono di Dio, essi devono essere controlati, nei loro atti, da una persona ecclesiastica[19].

-         Corona regum: l'unico manoscritto si conserva nella biblioteca di El Escorial; quest'opera è, si potrebbe dire, una guida morale del buon monarca, dedicata al principe Ferdinando, futuro re Cattolico, e scritta verso 1469, l'anno del suo matrimonio con Isabella di Castiglia, e piena degli ideali rinascimentali sull'educazione dei giovani[20]. Vespasiano da Bisticci[21] ne parla con le parole che seguono: "Compose uno libro intitolato Corona del principe, che è mirabil cosa, perchè fa una corona a uno re, e tutte le pietre vi si convergono drento, e a ogni pietra dà la sua similitudine, conveniente al governo d'uno re".

-         Paralipomenon Hispaniae libri decem: sono conservati due manoscritti di questa grande opera: uno si trova nella Biblioteca Nazionale di Madrid ed è il più interessante, l'altro, nella biblioteca della Real Academia de la Historia, anche a Madrid. Fu cominciata negli anni sessanta e più che finita è piuttosto incompiuta nel 1484 a causa della morte dell'autore. L'intenzione di Joan Margarit era scrivere la storia di Hispania dalle origini fino alla caduta dell'Impero Romano, ma la morte lo sorprese quando stava scrivendo sull'impero d'Augusto. Nonostante la sua incompletezza, è un'opera molto interessante per i passaggi di descrizioni geografiche con considerazioni d'ordine lessicale - etimologia dei toponimi, evoluzione di essi o corrispondenze tra gli antichi e i nuovi - e per l'uso delle fonti latine e soprattutto greche, nelle traduzioni latine fatte da noti umanisti italiani come Poggio Bracciolini, Guarino Guarini o Leonardo Bruni[22].

Per quanto riguarda le sue missioni come ambasciatore, bisogna mettere in rilievo quella che portò a termine tra 1481 e 1482 in Italia. Partí da Girona il 26 marzo per andare a Venezia. Sicuramente si fermò prima a Ferrara e arrivò a destinazione il 6 aprile. Doveva distogliere i veneziani dalle loro trattative con i turchi. Il 10 maggio pronunciò davanti al senato veneziano un discorso, che fu stampato a Roma nel mese di luglio dello stesso anno, in cui esortava i veneziani a resistere alle proposte dei nemici di Cristo, ma non ebbe molto successo. Margarit abbandonò la città "con uno grandissimo sdegno", dice Vespasiano da Bisticci[23], e si diresse verso Firenze. Poi visitò Napoli per informare il re Ferrante e alla fine tornò a Roma, dove tentò di persuadere il papa a lasciare la Lega Veneziana. Fallita questa prima ambasciata, il re Ferdinando ordinò a Margarit e a Bartomeu de Verí, che da poco era stato nominato suo assistente, di andare a trovare il papa Sisto IV per convincerlo ad abbandonare il suo freddo atteggiamento verso il re Ferrante di Napoli. Poi dovevano  andare a Venezia per preparare, se possibile, un accordo con Ferrara. Dovevano, dopo, avere un incontro con tutti gli aleati di Napoli e, se i veneziani non avessero cambiato atteggiamento, ratificare la solidarietà commune e incoraggiare Ferrara a resistere - bisogna ricordare che da maggio del 1482, Venezia e Ferrara erano in guerra -. Questa seconda ambasciata ebbe anche, sembra, poco successo. Il re Ferdinando, dunque, diede un tono più aggressivo alle sue istruzioni diplomatiche: minacciava il papa di ritirare i suoi regni dall'ubbidienza alla Santa Sede se le sue suppliche non venivano considerate. Nella sua lettera al papa, però, diceva soltanto che la Cristianità era in pericolo e che Napoli e Ferrara erano sempre state disposte ad accettare un arbitraggio. Se il papa non poteva, o voleva, intervenire, lui si verrebbe obbligato a prendere le armi per mantenere i suoi impegni col regno di Napoli. Essendo d'accordo con questo indurimento della postura del re Ferdinando, Margarit e De Verí, che sicuramente erano a Napoli, ritornarono a Venezia. Questa terza ambasciata voleva essere una specie di ultimatum. Se il dux non aveva l'intenzione di ristabilire lo statu quo, il re Ferdinando sarebbe stato obbligato non soltanto a porre fine al commercio con la repubblica, ma anche a ordinare l'espulsione di tutti i veneziani da Mallorca, Sicilia e Sardegna. Se i veneziani non rispondevano, gli ambasciatori dovevano visitare tutti i membri della Lega e mettere in risalto la simpatia del re Ferdinando per la loro causa. Intanto, Roma e Napoli avevano intrapreso una guerra aperta. Il 26 ottobre Margarit arrivò a Roma comandando la legazione ispanica. A novembre fu firmata una pace fra il papa e Alfonso di Calabria e più tardi fra Roma e Napoli. Sisto IV stava abbandonando Venezia. In una nota breve del 21 dicembre i risultati del trattato sono attribuiti all'intervento di Ferdinando ed Isabella e alla diligenza dei loro ambasciatori, i quali "visi sunt nobis viri graves et sapientes... Nihil enim studii et diligentie pretermiserunt, quo et mandatis vestris satisfacerent et communi totius Italiae tranquillitati consulerent"[24]. Hernando del Pulgar scrisse nella sua Crónica de los Reyes Católicos che durante la cerimonia della firma della pace il papa "fizo más honra a los enbaxadores del Rey e de la Reyna que a ningún de los otros príncipes e potestades; porque los fizo asentar e cobrir las cabeças, e todos los enbaxadores de los otros reyes e príncipes e comunidades estovieron las rodillas hincadas e descubiertas las cabeças"[25]. Dovunque ci furono gli applausi e le congratulazioni. Il re Ferdinando ringraziò il papa in una lettera del 27 gennaio del 1483 di una sua lettera precedente in cui Margarit e De Verí erano riconosciuti come autori della pace: "agimus gratias ob eam humanitatem atque amorem quo oratores nostros Beatitudo vestra tractavit"[26]. Il 4 febbraio i cittadini di Girona rispondono a una lettera di Margarit con sì caldi termini: "Ara emperò nosaltres vehents vostra carta e sabut Déu omnipotent per sa clemència haver foragitat per miga de Vostra Senyoria la tempesta de Itàlia e inimiga de la religió christiana, e donada la introducció de pau e repós a la militant sglésia e considerar que per portar a final conclusió dites coses vos ésser aquí per bon temps necessari..."[27].

È, mi sembra, accanto a queste reazioni che dovrebbe essere messo il poema di Antonio Geraldini, di cui adesso possiamo già occuparci. Si tratta, come ho detto prima, di un lungo poema panegirico composto da sedici strofe alcaiche[28].

 

Linguis sagaces ite fauentibus,

Iocunda pacis condite saemina

Et fruge mox terras replete,

  Qua bona posteritas fruatur!

Cultura uestra digna laboribus,                   5

Quam Xystus aruis excipiat suis,

Permutet ut glandes aristis

  Saecla nouans meliore pastu.

Nam pax laborum est messis opimior,

Victoriae pax aurea praemium est, 10

Martis triumphos dum recenset

  Atque opibus potitur subactis.

Est pax malorum terminus et quies,

Finis tumultus, moeta periculi,

Securitatis mater alma,             15

  Principium requiesque uitae.

Humana certo pectora foedere

Vinctura gentes undique congregat

Illasque speluncis relictis

  In patulos trahit aequa campos.                20

Quin et fidelis iustitiae comes

Leges tuetur iuraque confouet,

Amica uirtutis perennis,

  Criminis hostis atrox proterui.

Haec gestientis laeticiae parens                  25

Fons charitatis solaque charitas,

Felicitatis fida custos

  Diuiciis cumulans penates.

Pax ima summis aequat et alligat,

Pax orbis ordo regulaque ordinis,   30

Pax munus aeternum Tonantis,

  Pax species columenque rerum.

Natura nil hac nouit amicius,

Hac gratius nil crediderim Deo,

Quae placat humanis polorum  35

  Numen et hos superis reducit.

Tali colentes germine saeculum

Multa decori laude redibitis

Dignamque mercedem feretis

  Muneris egregie peracti.                          40

Nam Margarite primus honos domus,

Praesul Gerundae et pontificum decus

Pars una Romani senatus

  Purpureum referet galerum.

Post hunc peritus iuris et arbiter                 45

Verinus aequi moribus Acticis.

In Vrbe praeturam tenebit

  Laus patriae Balearis ingens.

Sed maior hinc est regibus Hesperi

Reddenda gratis gloria mentibus,                50

Quos pacis auctores Latinae

  Marmoreis titulis notabunt.

Quod si ministros protinus et duces

Parte quietis grande decus manet,

Iam quantus extollet datorem               55

  Pacis honos populos per omnes!

Is templa diuae uirginis erigens

Fundata pacis nomine publicae

Attollet hoc incisa uersu

  Perpetuis monumenta saxis.                     60

Xystus salutis mirificus pater

Quietis usus Italiae dedit;

Ast huius aeternos honores

  Regibus Hesperiis dicauit.

"Andate, sagaci, con lingue propizie, fondate le liete semenze della pace e riempite ben presto le terre con un frutto che possa godere un'abbondante posterità.

Che una cura degna dei vostri afanni, che Sisto riceva nelle sue messi, muti le ghiande in spighe, e che rinnovi i tempi con un miglior nutrimento.

Poiché la pace negli afanni è più fertile che la raccolta, l'aurea pace è il premio della vittoria, mentre passa in rassegna i trionfi di Marte e s'impadronisce delle richezze sottomesse.

La pace è il termine e la quiete dei mali, la fine del tumulto, la meta dei pericoli, la madre benefica della sicurezza, il principio ed il riposo della vita.

Certamente con un patto che unisce i cuori umani questo legame congrega genti da tutte le parti e, lasciate indietro le caverne, ugualmente le conduce negli aperti campi.

È in più compagna fedele della giustizia, difende le leggi e conforta i diritti, amica perpetua della virtù, nemica implacabile dell'ardito crimine.

Questa genitrice dell'esultante gioia, fonte dell'amore e solo lei amore, fedele protettrice della felicità che riempie di ricchezze le dimore.

La pace rende uguali e lega le cose infime con le superiori, la pace è l'ordine del mondo e la regola dell'ordine, la pace è il dono eterno della divinità, la pace è l'ideale ed il culmine delle cose.

La natura non conosce niente di più favorevole, io non ho mai creduto in una divinità più gradita di questa, che calma per gli umani la potenza dei cieli e gli riconduce alle altezze.

Se coltivate il mondo con un tale germe tornerete al decoro con grande elogio e otterrete una mercede degna del lavoro condotto a termine eccellentemente.

Poiché Margarit, primo onore della famiglia, vescovo di Girona e ornamento dei vescovi, membro del senato romano, conseguirà il berretto purpureo.

Dopo esso, Verí, esperto in leggi e mediatore della giustizia con abitudini attiche, enorme lode della patria baleare, avrà in possesso una pretura nella città.

Ma da ora la più grande gloria deve essere data con ragioni riconoscenti ai re di Spagna, che come autori della pace latina saranno segnati in iscrizioini di marmo.

Se, dunque, insieme ai sostenitori e ai principi della tranquillità resta in qualche modo il grande onore, di certo al datore della pace innalzerà un notevole onore attraverso tutti i popoli.

Questo, erigendo un tempio in onore della santa vergine, fondato col nome della pace pubblica, erigerà con pietre perpetue monumenti incisi con questi versi.

Sisto, padre straordinario d'integrità, ha dato all'Italia l'esercizio della pace, ma tuttavia ha offerto ai re di Spagna gli eterni onori di questa."

Le due prime strofe sono indirizzate a Joan Margarit e Bartomeu de Verí[29]. Li esorta, usando metafore agricole, a coltivare, cercare e diffondere la pace. Nelle sette strofe che seguono, l'autore fa il panegirico della pace[30]: con una serie di epiteti, con frasi che mettono in risalto i suoi vantaggi. La decima strofa ricupera un po' la metafora agricola, appare un germine, per introdurre un nuovo argomento: i premi, le ricompense che otterranno per il lavoro fatto. Joan Margarit è stato nominato cardinale il 15 novembre 1484, sembra dire Antonio Geraldini, grazie al successo della sua terza ambasciata e Bartomeu de Verí, per lo stesso motivo, otterrà un posto come magistrato.

Benché il titolo sia quello ricordato all'inizio, a partire della tredicesima strofa gli elogi sono diretti ai re Ferdinando ed Isabella e al papa Sisto IV, i quali sono giudicati, sopratutto il papa, i veri artefici della pace in Italia. Antonio si trova tra l'incudine e il martello - è al servizio dei re di Spagna, ma italiano d'origine come Sisto IV - e decide di agire diplomaticamente attribuendo a ciascuno di loro una parte della responsabilità.

Nella penultima strofa, oltre al riferimento al poema come fornitore d'immortalità -di evidenti risonanze oraziane - Geraldini menziona la costruzione a Roma, ordinata dal papa Sisto IV, della chiesa di Santa Maria della Pace, vicino a Piazza Navona e accanto a Santa Maria dell'Anima.

È difficile dire se il nostro Antonio Geraldini è stato testimone presente in queste ambasciate, se ascoltò direttamente i discorsi. Secondo Mustard[31], verso 1483 era in Italia, a Firenze. È questo il motivo per cui ho aggiunto un punto interrogativo al titolo originario della mia relazione[32]. Gli arrivò, comunque, la notizia del successo, ed essendo amico di uno dei due dedicatari - Bartomeu de Verí - scrisse questo poema panegirico formato da un elogio, forse topico, della pace ed i suoi benefici, e una lode dei suoi fautori.

Arrivati a questo punto, e visto lo sviluppo della mia relazione, non so se sarebbe stato più preciso - oppure onesto - intitolarla "I Geraldini e Girona". Grazie.

 

[1] Actes del IXè Simposi de la Secció Catalana de la SEEC, Barcelona, Publicacions de la Universitat de Barcelona, 1991, vol.I, pp.431-436.

[2] Actes de les Jornades d'homenatge a Dolors Condom, Annals de l'Institut d'Estudis Gironins, XXXI (1990-1991), pp.89-98.

[3] Questa tesi avrà come titolo "Els Paralipomenon Hispaniae libri decem de Joan Margarit: edició crítica, traducció i estudi".

[4] Leben, Dichtung und soziales Beziehungsnetz des Humanisten Antonio Geraldini, Marburg, 2002. Il dottor Früh si era già occupato del nostro umanista nei lavori pubblicati: "Los Carmina ad Iohannam Aragonum del humanista italiano Antonio Geraldini (m.1489): reflexiones preliminares a una edición crítica", in Faventia, 22 (2000), pp.141-143; "Profecía y realidad: una oda de Antonio Gerladini al rey Fernando el Católico", in D. Briesemeister-A. Schönberger (eds.), De litteris Neolatinis in America Meridionali, Portugallia, Hispania. Italia cultis, Frankfurt am Maim, 2002, pp.47-67; e "Funus et eulogium. Antonio Geraldinis Ode zum Tode König Johanns II von Aragón", in B. Czapla-R.G. Czapla-R. Seidel (eds.), Lateinische Lyrik der Frühen Neuzeit. Poetische Kleinformen und ihre Funktionen zwischen Renaissance und Aufklärung, Tubinga, 2003, pp.11-33.

[5] F. Bausi, Dizionario Biografico degli Italiani, Istituto dell'Enciclopedia Treccani, 1999, vol.53,  pp.321-324.

[6] Il più notevole è lo studio e l'edizione critica delle sue opere in due volumi: Jeroni Pau, Obres, Barcelona, Curial, 1986. Ma la professoressa Vilallonga se ne era già occupata in lavori anteriori come "Una inscripció de Jeroni Pau a Subiaco", in Faventia, 4/2 (1982), pp.99-105, e "Característiques de la llengua poètica de Jeroni Pau", in Faventia, 7/2 (1985), pp.53-59; e posteriori come "La métrica de Jeroni Pau", in La Filología Latina hoy. Actualización y perspectivas, Madrid, Sociedad de Estudios Latinos, 1999, vol.II, pp.1355-1365.

[7] Vid. Jeroni Pau, Obres, Barcelona, Curial, 1986, vol.II, pp.66-73, 112-113; e vol.I, pp.148-149 per l'analisi della contaminatio.

[8] Questo manoscritto fu descritto da M. Antonia Adroher Ben nell'articolo "Estudios sobre el manuscrito Petri Michaelis Carbonelli Adversaria 1492 del Archivo Capitular de Gerona", in Anuario del Instituto de Estudios Gerundenses, 11 (1956-1957), pp.109-162.

[9] Vid. supra note 1 e 2.

[10] Che possiamo leggere in un'edizione critica in due volumi a cura di Agustí Alcoberro nella collana di classici catalani "Els Nostres Clàssics", Barcelona, Ed. Barcino, 1997.

[11] La literatura llatina a Catalunya al segle XV. Repertori bio-bibliogràfic, Barcelona, Curial-Publicacions de l'Abadia de Montserrat, 1993, pp.63-72. Altri lavori della professoressa Vilallonga su Pere Miquel Carbonell sono: l'edizione di Dos opuscles de Pere Miquel Carbonell, Barcelona, Asociación de Bibliófilos de Barcelona, 1988; e gli articoli "Pere Miquel Carbonell, un pont entre Itàlia i la Catalunya del segle XV", in Revista de Catalunya, 85 (1994), pp.39-59, e "Humanistas italianos en los manuscritos de Pere Miquel Carbonell", in Actas del II Simposio Internacional sobre Humanismo y pervivencia del mundo Clásico, Cádiz, 1997, pp.1217-1224.

[12] "Pere Miquel Carbonell e i fratelli Geraldini", in La Sardegna e la presenza catalana nel Mediterraneo, Cagliari, Cooperativa Universitaria Editrice Cagliaritana, 1998, vol.I, pp.154-166. In questo articolo la professoressa Cirillo Sirri riproduce anche i due testi di Alessandro Geraldini appena menzionati.

[13] "El sepulcro de Pedro de Arbués y su contexto", Boletín del Museo e Instituto "Camón Aznar", LIX-LX (1995), pp.169-203; "La imagen de Pedro de Arbués. Literatura renacentista y arte medieval en torno a don Alonso de Aragón", Locus amoenus, 1 (1995), pp.107-119.

[14] Che ho editato e studiato nella comunicazione menzionata nella nota 1: "Sobre uns poemes inèdits d'Antonio Geraldini conservats a l'Arxiu Capitular de la catedral de Girona", concretamente nelle pagine 434-436.

[15] Joan Margarit i Pau cardenal i bisbe de Girona, Barcelona, Curial, 1976.

[16] Vespasiano da Bisticci, "Cardinale di Girona, Spagnuolo", Vite di uomini illustri del secolo XV, a cura di Paolo d'Ancona ed Erhard Aeschlimann, Milano, Ulrico Hoepli, 1951, p.115.

[17] loc.cit.

[18] Liber notarum. Ab anno MCCCCLXXXIII usque ad annum MDVI, a cura d'E. Celani, Città di Castello-Bologna, 1906-1942, vol.I, p.89.

[19] Possiamo leggere questo testo nell'edizione di Fidel Fita contenuta nel suo libro El Gerundense y la España primitiva, Madrid, 1879, pp.95-219 e in una traduzione castigliana di Joaquim Gou i Solà, "El Templo del Señor, al serenísimo rey de Aragón, Juan Segundo", pubblicata nella Revista de Gerona, X-XII (1886-1888).

[20] Potremo leggere questo testo, con traduzione catalana a fronte, grazie alla tesi di dottorato della professoressa Isabel Segarra, che deve essere pubblicata tra poco. Intanto possiamo leggere il suo articolo "El tractat Corona regum: l'humanisme italià i el pensament polític de Joan Margarit", in Literatura i Cultura a la Corona d'Aragó (s.XIII-XV). Actes del III Col·loqui Internacional Problemes i Mètodes de Literatura Catalana Antiga, Barcelona, Curial-Publicacions de l'Abadia de Montserrat, 2002, pp.285-296.

[21] loc.cit.

[22] Oltre al professore Tate, nella già menzionata monografia (nota 15) e alla professoressa Vilallonga, nel suo repertorio bio-bibliografico (nota 11), si sono occupati di quest'opera Fidel Fita, El Gerundense y la España primitiva, Madrid, 1879; la professoressa Matilde Conde Salazar, "Un análisis de la historiografía latina renacentista del siglo XV en la Corona de Aragón", in Revista de lenguas y literaturas catalana, gallega y vasca, IV, Madrid, UNED, 1996, pp.249-276; e chi scrive, nella tesi di laurea inedita El llibre segon del "Paralipomenon Hispaniae" de Joan Margarit. Edició crítica, traducció i estudi, Universitat de Girona, 1994, e negli articoli: "La tradición manuscrita y el uso de las fuentes en el libro II del Paralipomenon Hispaniae", in Actas del IV Congreso de postgraduados en Estudios Hispánicos (University of Nottingham, 4-5 Enero 1996), Londres, Embajada de España, 1996, pp.101-111; "Joan Margarit i Mallorca: presència de les Illes Balears en el Paralipomenon Hispaniae libri decem", in Homenatge a Miquel Dolç. Actes del XII Simposi de la Secció Catalana i I de la Secció Balear de la SEEC, Palma de Mallorca, 1997, pp.495-498; "Joan Margarit, Fidel Fita i Robert B. Tate: la dedicatòria del Paralipomenon Hispaniae" in Miscel·lània d'homenatge a Modest Prats, I, Estudi General, 21, Girona, Universitat de Girona, 2001, pp.465-473; "El Paralipomenon Hispaniae de Joan Margarit i els humanistes italians", in Literatura i Cultura a la Corona d'Aragó (s.XIII-XV). Actes del III Col·loqui Internacional Problemes i Mètodes de Literatura Catalana Antiga, Barcelona, Curial-Publicacions de l'Abadia de Montserrat, 2002, pp.271-284.

[23] Op.cit., p.114.

[24] Citato da Calmette, "La politique espagnole dans la guerre de Ferrare", Revue Historique, XCII (1906), p.291 e da Tate, op.cit., p.132.

[25] Secondo l'edizione di J.M. de Carriazo (Madrid, 1943), vol.II, p.47.

[26] Antonio de la Torre, Documentos sobre las relaciones internacionales de los Reyes Católicos, 1479-1487, Barcelona, 1949-1950, anno 1483, documento n.7.

[27] Arxiu Municipal de Girona, Manual d'Acords dels Jurats (1483), f.12r, secondo la trascrizione del professore Tate, op.cit., p.133.

[28] Riproduco il testo secondo l'edizione del dottore Martin Früh nella sua tesi di dottorato Leben, Dichtung und soziales Beziehungsnetz des Humanisten Antonio Geraldini, Marburg 2002, pp.225-227.

[29] Nel primo verso troviamo un eco oraziano ("fauete linguis", O, III, 1, 2) e nel settimo una risonanza virgiliana ("Chaoniam pingui glandem mutauit arista", G, I, 8). Tutte le informazioni sull'uso delle fonti classiche me le ha gentilmente offerte il dottore Martin Früh, che ringrazio vivamente.

[30] Con brani che potrebbero essere i frutti di un'attenta lettura di Silio Italico, Prudenzio e Sant'Agostino, oltre ad alcune altre risonanze oraziane (verso 29: "ualet ima summis", O, I, 34, 11; verso 32: "columenque rerum", O, II, 17, 4).

[31] W.P. Mustard, The Eclogues of Antonio Geraldini, Baltimore, 1924, p.12.

[32] Il quale motivo, appena finita la mia relazione, mi è stato confermato dal dottore Martin Früh, poiché dalle sue ricerche si deduce che Antonio Geraldini non si trovava in Italia nel 1483.